
Quando la ferita diventa narrazione
a cura di Danilo Serra (Voci dal Centro di Ricerca, Arte, Dolore, Etica, Medical Humanities, Morte.)
Nella sua radice essenziale, il dolore non assume affatto i tratti dell’univocità, ma della singolarità. Si manifesta in forme sfuggenti, abita orizzonti differenti, si radica nell’esperienza biografica e si intreccia con i legami sociali e simbolici, fino talvolta a fondersi intimamente con essi. Così, il dolore si fa esperienza, irriducibile e non univoca. In quanto tale, esso sfugge a ogni tipo di classificazione rigida, non lasciandosi catturare una volta per tutte né dal linguaggio medico né da quello comune. La singolarità del dolore risiede nella sua capacità di farsi espressione di senso, “fenomeno espressivo” che, nella virulenza del suo apparire e scomparire, del suo darsi e non concedersi, plasma dall’interno e dall’esterno la storia dell’umano.
Perché, in fondo, noi siamo anche i nostri dolori e siamo al contempo quelli dell’altro: l’altro che ci è vicino, che dorme accanto a noi o che incrociamo nel mondo, l’altro che respira e non c’è più, che ci tormenta, affligge e scuote, l’altro la cui fragilità si intreccia straordinariamente alla mia.
Il dolore è singolare perché, dunque, singolare è il suo modo di apparire come fenomeno. In questo strato di singolarità si conserva, tuttavia, qualcosa di universale: nella singolarità del suo apparire, il dolore si trasforma in richiamo e appello universale. Non si tratta di un semplice “campanello d’allarme”, un segno di qualcosa che non va dentro e fuori di noi, bensì di una vera e propria esperienza che mette in gioco l’intera persona e la sua relazione globale con il mondo.
Il dolore si dice in molti modi; e in molti modi si vive. Esso parla dell’uomo malato o, usando un linguaggio caro alle Medical Humanities, parla all’uomo malato. Potremmo ora anche spingerci più in là e dire, senza il timore di scimmiottare, che il suo è un linguaggio che si rivolge all’uomo in generale. Già alla fine dell’Ottocento, Ludolf von Krehl invita a considerare la malattia e il dolore come fenomeni che complessivamente toccano l’uomo nella sua interezza. L’essenza del dolore non è riscontrabile in un determinato organo, luogo o spazio, ma attraversa e pervade indistintamente “tutto l’umano”. Una concezione, questa, che trova ulteriore sviluppo nell’antropologia medica di Viktor von Weizsäcker, filosofo e medico del secolo scorso, nonché allievo di Krehl. Weizsäcker avverte con lucidità i limiti intrinseci della medicina occidentale moderna, ridotta a un sapere quantitativo e deterministico privato di quella dimensione “patica” senza la quale rischia di trasformarsi in una disciplina sempre più fredda, distanziante e oggettivante.
Il suo pensiero e i suoi scritti non sono soltanto riflessioni dall’alto valore teoretico, ma un vero e proprio intervento programmatico, un invito rivolto alla medicina affinché rinunci a ridurre l’uomo esclusivamente a puro oggetto (Objekt) analitico o descrittivo e si apra, invece, a una comprensione integrale della persona secondo l’assunto per cui «il processo vitale non fa i conti coi numeri» (Weizsäcker 2017, p. 52). Weizsäcker, da medico, evidenzia il fatto che la medicina scientifica moderna corre sempre il rischio di trattare il paziente e il suo corpo come Gegenstand, cioè come un semplice oggetto di studio che “sta di fronte” a un soggetto valutante. In questo modo, in sintonia con una visione riduzionista delle cose, l’uomo viene de-soggettivato, privato della propria soggettività, con la conseguente perdita del contatto con la persona concreta e la sua storia. Sebbene l’aspetto tecnico sia inevitabilmente utile per il progresso scientifico della medicina, si dimentica spesso che il corpo da curare non ha soltanto le fattezze di una “quantità biologica”, ma appartiene a un soggetto animato che stringe costantemente relazioni, fisiche e di senso, con altri soggetti animati: «l’essenza dell’uomo ha una sua realtà solo come uomo tra gli uomini e possiede quindi una struttura sociale» (Weizsäcker 2017, p. 103). Occuparsi di un paziente significa anche confrontarsi con la sua esperienza intersoggettiva, con la sua dimensione patica e la sua storia, elementi che nessuna procedura quantitativa o tecnica può rimpiazzare dall’oggi al domani.
È in questo senso che Weizsäcker parla esplicitamente di «antropologia medica» (Weizsäcker 2017, p. 29), invitando la medicina a farsi scienza dell’uomo situato, incarnato, intrecciato inscindibilmente a un profluvio di relazioni e significati. Tra gli obiettivi di questa “nuova medicina” c’è quello di indagare il “senso” della malattia e del dolore, vale a dire il loro emergere come “modi” dell’essere umano, occorrenze che dicono in quel momento qualcosa di significativo circa il vissuto della persona. Lungi dall’essere un mero sintomo da decifrare o un indice da misurare, il dolore si rivela come esperienza che eccede ogni riduzione tecnica o quantitativa. Esso si configura come evento dialogico che parla contemporaneamente al curato e al curante, creando un nuovo spazio imprevedibile di reciprocità terapeutica in cui la vulnerabilità si rende visibile e condivisibile. È in questo spazio, che Weizsäcker chiamerebbe “antropologico” o “biografico”, che la verità del dolore si lascia intravedere; non come dato clinico, ma come narrazione viva, tessitura esistenziale che non si esaurisce nell’atto clinico, ma si dispiega espressamente in una relazione di senso, narrazione e cura.
Parlare di dolore significa, a livello esistenziale, parlare di qualcosa che ci parla e ci invita a una relazione che trascende la sfera del potere.
Significa riflettere su uno dei significati più propri ed enigmatici dell’esistenza umana. Questa riflessione ci permette di tenere in considerazione, senza correre il rischio di obliarla o sottacerla, l’originaria condizione vulnerabile dell’essere umano, condizione (inevitabile e inaggirabile) che il dolore tutte le volte, e ogni volta in modo peculiare, nella virulenza del suo apparire riporta alla luce.
Tutto ciò si riflette direttamente nelle pratiche bioetiche e nei modelli di cura che pongono al centro dell’analisi la dignità della persona. Un’applicazione concreta di questa visione si trova, ad esempio, nella medicina palliativa, che ci invita a rileggere il dolore come un’esperienza esistenziale radicale da accompagnare. Un accompagnamento che porta alla generazione di dispositivi di cura che, pur non provocando nell’altro una piena o completa guarigione, attivano tuttavia dinamiche e sollecitazioni che risultano cruciali nella costruzione e ricostruzione delle relazioni tra curante e curato.
La sofferenza diventa parola, apertura, domanda di senso che parla del vissuto del paziente e chiede, nel suo dramma, di essere ascoltata; è parola che si fa essa stessa relazione e condivisione, aprendosi all’esperienza di cura e inverando un orizzonte curativo permeabile e sempre aperto che trascende il mero trattamento clinico ridotto alla sola gestione sintomatica della sofferenza.
L’esperienza del dolore definisce ogni volta una nuova narrazione tra curante e curato,
dove entrambi risultano toccati e interpellati dal flusso imprevedibile di un’esistenza che, lungi dall’essere nuda sopravvivenza, si rivela in tutta la sua carica significativa come domanda e ricerca di senso. Le ferite dell’altro mi avvicinano all’altro, mi spingono a incontrare il suo mondo e a sostare nella sua prossimità, anche fino all’ultimo istante, se necessario. «La ferita che fa male», scrive Han, «è un’apertura primordiale verso l’Altro» (Han 2021, p. 64). Come nella commovente scena dipinta dal pittore Luke Fildes (riferimento al dipinto intitolato The Doctor), in cui, pur nel fallimento di ogni diagnosi e nella consapevolezza che non c’è più nulla da fare, il medico sceglie deliberatamente di rimanere fino alla fine accanto al piccolo paziente sofferente, dando forma tangibile a quella categoria che Weizsäcker chiama Ent-scheidung, «decisione» (Weizsäcker 2017, p. 47): un gesto che non si riduce a una determinata applicazione, ma incarna in sé una scelta esistenziale.
Questo “rimanere” non conduce verso una riparazione organica, non salva il bambino dalla morte, ma si manifesta come una disperata e faticosa forma di cura, nella quale l’impotenza del medico si stringe attorno all’assoluta vulnerabilità del paziente, alla sua morte prossima. L’atto del rimanere, che scaturisce dalla scelta decisionale del medico, diviene l’accompagnamento che in qualche modo cura pur non guarendo, il non fuggire che significa rimanere raccolti silenziosamente all’ascolto, trattenersi presso l’altro e condividere la medesima esperienza. Si tratta, in altre parole, «di un’azione particolare perché si confronta con una vera alterità: il paziente è un altro, non un elemento astratto ma un altro individualizzato» (Canto-Sperber & Ogien 2024, p. 101).
L’esperienza del dolore innesca una vera e propria etica non dogmatica della narrazione che le medical humanities – e, più in generale, il vasto ambito che interessa da vicino i clinici e i professionisti dell’assistenza e della cura – non possono permettersi di trascurare.
L’etica della narrazione consente di dare calore e voce al dolore dell’altro, trasformando le ferite e i traumi in “senso”, “racconto”, “raccoglimento”, rendendo così il dolore, per dirla con Weizsäcker, carne di una verità che si fa dialogo nel tempo e si apre autenticamente all’esperienza di cura.
Ascoltare il linguaggio del dolore vuole dire, in fin dei conti, attivare un processo vitale (Lebensvorgang) e riconoscere la dignità del paziente sofferente, il quale, certamente, ha bisogno di cure mediche nel senso più tecnico e specialistico del termine, ma ha anche l’esigenza, niente affatto secondaria o minore, di entrare in relazione con il proprio curante, una “presenza” che sappia fermarsi e che, in tensione verso l’altro, «con affetto cerca la sua mano» (Weizsäcker 1990, p. 97). È in questo spazio di incontro e reciprocità che si manifesta la vera forza del gesto medico, il suo significato più alto, il suo autentico “valore”.
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