La tolleranza è una cosa ingombrante. Si rivela dove fa male: quando incontriamo credenze, stili di vita o visioni del mondo che vanno contro la nostra essenza. Eppure non è né la sorella maggiore dell’indifferenza né la cugina dell’arbitrarietà. Al contrario: la tolleranza è un duro lavoro. Richiede da noi la decisione consapevole, a volte dolorosa, di riconoscere il diritto degli altri alla loro posizione, anche quando consideriamo quella posizione fondamentalmente sbagliata.
La dialettica della tolleranza
Una società infinitamente tollerante si scava la fossa quando dà libero sfogo alle forze intolleranti. Come ha sottolineato in seguito il filosofo Herbert Marcuse: “La tolleranza non può essere fine a sé stessa. L’obiettivo della tolleranza è la verità”.
Incontriamo questa intuizione teorica quotidianamente nella pratica. Ciò è diventato particolarmente evidente in un processo di mediazione tra diversi gruppi di interesse in una grande azienda: una fazione ha adottato sempre più posizioni aggressive ed escludenti.
Il momento in cui è stato necessario tracciare la linea della tolleranza e l’intervento è diventato necessario è stato come un caso di studio nel paradosso di Popper – e allo stesso tempo ha dimostrato quanto sia difficile nella realtà tracciare tali confini.
La semplice tolleranza religiosa si è evoluta in un complesso principio di etica del discorso. Il nostro mondo globalizzato ha imparato una lezione fondamentale in questo processo: la tolleranza non è una grazia concessa dalla maggioranza alle minoranze. Si tratta piuttosto dell’ossigeno di cui una società pluralistica ha bisogno per respirare.
La tolleranza richiede da parte nostra un difficile equilibrio: non significa gettare tutte le posizioni in un vaso di arbitrarietà. Ci sfida invece ad accettare l’esistenza di prospettive diverse senza mettere alla porta le nostre convinzioni morali come un vecchio cappotto. Questa tensione tra relativismo e fermezza etica rende il discorso filosofico sulla tolleranza così entusiasmante e così rilevante oggi.
La tolleranza danza sempre sul parquet del potere. Coloro che tollerano esercitano il potere: il potere di permettere o rifiutare. Questa presa di coscienza è scomoda ma importante: la tolleranza non deve degenerare in uno strumento di potere. Deve invece essere inteso come un principio etico che mette in discussione criticamente e bilancia le relazioni di potere.
La rivoluzione digitale solleva nuove domande in questo contesto. Gli algoritmi e l’intelligenza artificiale creano squilibri di potere che mettono alla prova la nostra tradizionale comprensione della tolleranza. Quanto possiamo e dobbiamo essere tolleranti verso sviluppi che gettano nello scompiglio le nostre nozioni familiari di autonomia e libertà di scelta?
Forse abbiamo bisogno di una comprensione più ampia della tolleranza: come processo dinamico di scambio e riflessione critica che traccia confini e costruisce ponti. In questo senso, la tolleranza non è una virtù passiva ma un compito attivo nel plasmare una società umana.
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