Immagini di sofferenza circolano ovunque: dalla guerra, ai disastri naturali, persino alle tragedie personali.
Quando vediamo un'immagine di una zona di guerra o di una città devastata da un'alluvione, cosa dovremmo provare? Dobbiamo riconoscere che queste immagini rappresentano persone reali, non solo pixel su uno schermo.
La sofferenza altrui comporta una responsabilità.
L'esposizione costante a tali immagini può portare a ciò che la psicologia moderna definisce "affaticamento da compassione" o "affaticamento da empatia", concetti che implicano la desensibilizzazione da sovraesposizione. Gli spettatori si espongono al rischio di essere emotivamente prosciugati e alla fine risultare passivi, incapaci di qualunque reazione.
L’idea che le crude immagini di sofferenza renda gli spettatori automaticamente più compassionevoli è una certezza? Gli studi mostrano risultati contrastanti. Alcuni studiosi hanno scoperto che mentre alcune persone possono sentirsi spinte ad aiutare, altre si sentono impotenti o addirittura irritate dalle ripetute immagini di dolore. La prospettiva emergente si allinea a coloro che temono che l'empatia si assottigli sotto la pressione degli "spettacoli di sofferenza".
Il potere nelle immagini è indiscutibile. La maggior parte delle foto di sofferenza non vengono scattate da chi la vive; vengono catturate da fotografi, giornalisti o curioso occasionali. Ciò crea uno squilibrio di potere. Il soggetto non ha alcun controllo su come o dove appare l'immagine e l'osservatore raramente conosce la storia completa dietro di essa. Fotografare è inquadrare. Cioè si crea un quadro attraverso cui il fotografo modella la comprensione dello spettatore.
Questo squilibrio solleva questioni etiche sulla rappresentazione. Chi può raccontare queste storie di sofferenza? E che impatto ha questo sulla dignità delle persone ritratte? L'osservatore vede solo ciò che il fotografo ha catturato, il che può plasmare l'opinione pubblica, a volte in modi che il soggetto potrebbe non apprezzare. Questa idea riecheggia nel giornalismo moderno, in cui le scelte del fotografo possono rispettare o sfruttare l'umanità del soggetto.
Le notizie non si muovevano alla velocità di un tweet. Ora, abbiamo un ciclo di notizie 24 ore su 24, 7 giorni su 7 che spinge costantemente storie di dolore e disastro. I titoli scorrono sugli schermi tutto il giorno, spesso sensazionalizzando le tragedie per tenerci incollati. Tutto ciò porta alla "saturazione delle immagini di dolore"; troppe cose da vedere può portare a un sovraccarico emotivo piuttosto che a una comprensione.
I social media intensificano questo problema. Una singola immagine o video tragico può diventare virale in tutto il mondo in pochi secondi, confondendo il confine tra la sensibilizzazione e lo sfruttamento della sofferenza
La preoccupazione che esista un sentimento di "stanchezza dell'empatia" o "stanchezza della compassione" è reale. Le persone possono perdere la capacità di preoccuparsi dopo aver visto troppa sofferenza. Comunque, la stanchezza da empatia non significa che le persone non si preoccupino; significa che sono sopraffatte spiritualmente in seguito all'esposizione ripetuta alla sofferenza e di conseguenza, può renderle insensibili, spegnendo le loro emozioni come meccanismo di difesa.
Anche la privacy è una preoccupazione. Quando i fotografi catturano la sofferenza senza consenso, può sembrare un'invasione. La loro sofferenza non è intrattenimento e gli spettatori dovrebbero ricordare che ci sono vite reali oltre l'inquadratura.
Le immagini recenti dalle zone di guerra, come quelle dalla Siria, dall'Ucraina o dal Libano, ci commuovono, ma spesso non raccontano la storia completa. Stiamo assistendo a una sofferenza reale o a una versione che si allinea con gli obiettivi del fotografo o dell'editore?
La pandemia di COVID-19 ha portato alla luce problemi simili. Immagini di pazienti sottoposti a ventilazione artificiale o di dottori sopraffatti hanno fatto il giro online, a volte invadendo la privacy delle persone ritratte. Sebbene queste immagini abbiano aumentato la consapevolezza, hanno anche suscitato preoccupazioni etiche su quanta sofferenza debba essere pubblicizzata.
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